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Comunali 2021: “Necessario il ritorno a un’etica politica e sociale”

Gen 12, 2021 di redazione

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Riceviamo e pubblichiamo le riflessioni sulle prossime elezioni Amministrative a Benevento a cura di Carlo Cavallo.

“Gentilissino Direttore vorrei sottoporre ai suoi lettori una personale riflessione a proposito delle prossime elezioni amministrative…Nella fiaba “I vestiti nuovi dell’Imperatore” (1837), di Hans Christian Andersen, si racconta di un bambino che, durante una parata militare, ha il coraggio di esclamare a voce alta quello che tutti ben sanno e vedono che l’imperatore, appunto, è nudo. Per l’occasione, si dovrebbe ricercare, come per il bambino, quella semplicità di cuore che fa intravedere una pacata ma severa scudisciata sulla vanagloria, variante un po’ ridicola del vizio capitale della superbia.

L’aspetto più patetico della vanità è proprio il rischio di cadere, senz’accorgersene, nel comico e nella macchietta. I vanitosi allargano la ruota del loro orgoglio come pavoni, (laudato pavone superbior, più superbo di un pavone lodato). C’è, infatti, un coro di grida mute che escono dalle labbra di tanti Beneventani umiliati: sono le «storie taciute» fatte di “violenza” (verbale), sfruttamento, degrado, storie che si consumano «in mezzo a troppa indifferenza». «Non possiamo chiudere gli occhi, … il risveglio delle coscienze più non tarderà». Al “reuccio” di quartiere si riserva sempre un trattamento di favore a causa della forza del suo “ascendente”. È, questa, una triste legge a cui tutti ci adattiamo: quante volte si è pronti a incensare, a dar ragione, persino a esaltare il ricco o il potente di turno, anche se quelle che emette sono solo idiozie e insulsaggini. Il mitico ragionier Fantozzi striscia di fronte al padrone anche quando gli prospetta un’assurdità, e questo – sia pure in minima parte – alberga un po’ in tutti noi. Bisogna avere il coraggio dell’uomo veramente libero per non esitare a denunciare la vacuità e la banalità di chi gestisce beni pubblici e potere.

Continuando, ci viene in aiuto Trilussa, facendo parlare i suoi animali…: «Ognuno crede alle ragioni sue» disse il camaleonte; «io cambio sempre e tu non cambi mai».

Appunto il “CAMALEONTE” (o anche i camaleonti), tipico emblema del trasformismo (politico?), che si rivolge a un “rospo”, fisso nella sua identità non particolarmente esaltante. E come accade nelle favole, la morale è di facile comprensione e si attesta su uno scontato equilibrio tra i due estremi, della fluidità incessante e della rigidità assoluta. Equilibrio «scontato!»; in realtà è duro praticarlo, perché ci vuole sapienza e riflessione per intuire il tempo della fermezza e quello della duttilità, senza cadere nell’ostinazione o, al contrario, venir meno ai valori e ai principi.

È curioso, in italiano «carattere» è anche lo stampo che si usa in tipografia: è qualcosa che incide in modo permanente. È così parliamo di «uomo di carattere» che è colui che sa procedere nella vita con volontà, energia, coraggio, determinazione, tenacia, costanza e grinta. Valori preziosi in un mondo incline al compromesso, al patteggiamento, alla “scusante”. Nel nostro caso, possiamo parlare, forse, di un temperamento che è si rigoroso, soprattutto nella tutela del proprio vantaggio, mentre è molto flessibile nei confronti dei principi che lo impegnano troppo.

Per questo abbiamo bisogno, anzi, è necessario diventare come il bambino della favola. È vero, la cosa più facile è dar consigli agli altri, diceva Talete di Mileto, che con sarcasmo sottolinea la generosità e la facilità nel consigliare gli altri, con l’aggravante della presunzione di essere migliori e superiori, ma proprio perché liberi e dotati di volontà, possiamo lavorare su noi stessi e cambiare. Le nostre azioni possono, allora, diventare uno strumento di «ri-creazione» di noi stessi e della realtà che ci circonda. È ciò che hanno compiuto molti grandi della storia che si sono duramente imposti progetti e programmi da attuare, reagendo ai loro stessi limiti iniziali. È, soprattutto, ciò che è stato dimostrato dai santi, che spesso hanno ribaltato in virtù certi loro difetti, rendendo fecondo anche un temperamento arido. Noi, dunque, siamo un intreccio di grazia e di libertà, di dono e di volontà, di mistero e di evidenza. Siamo creati da Dio, ma in modo da essere partecipi della nostra rigenerazione. Dono e impegno, intelligenza e volontà si devono intrecciare fra loro perché si possa avere la persona completa e matura. Ho avuto l’impressione che qui in Benevento «chi sa non parla e chi parla non sa». Credo che sia giusto parlare «quando la necessità lo esige», non facendo mancare la propria testimonianza o il sostegno o la risposta. Il rischio sta, però, nel fatto che la «necessità» può essere simile a una realtà fluida che s’allarga a proprio giudizio fino a coprire quasi ogni evento. E, allora, vale sempre il principio di precauzione: «Porrò un freno alla mia lingua … ». È qui che si annida l’insoddisfazione, è in questa tensione che germoglia l’infelicità (di vedere morire ogni giorno la città di Benevento). Certo, non si deve vivere lasciando che il fato ci conduca là dove non vorremmo, perché siamo dotati di una libertà, di una volontà e di una capacità di agire. Tuttavia si deve essere consapevoli che la vita fa parte di un più alto e grande contesto che il credente vede affidato alle mani divine.

Ecco, allora, un equilibrio da conquistare: cercare con tutte le proprie energie la felicità, ma essere anche felici di ciò che si ha e che la vita offre (possibilmente, però, con tutto il mio impegno per il cambiamento). Non essere rinunciatari ma neppure aggressivi, non precipitare nell’inoperosità ma neppure diventare esagitati e isterici. Con pacatezza !

In verità il “Camaleonte”, nel suo progetto, dissacra tre realtà. Il miracolo: per lui non è un atto d’amore, bensì un prodigio che inganna e attira. Il mistero: per lui è accecamento che aggroviglia le capacità razionali e incatena la volontà umana. L’autorità: per lui è l’esercizio di un potere che costringe gli uomini «a inchinarsi e ad affidare la propria coscienza, divenendo un formicaio comune», l’esatto contrario dell’autorità evangelica che è un «servire» e un essere «ultimo e servo di tutti». Nelle parole del Camaleonte c’è, dunque, l’inganno della falsa religiosità che si oppone al Vangelo, che è un appello all’amore, alla libertà, alla coscienza. Detto questo, rimane però indubitabile ancora una cosa: anche i giovani devono essere non meri recettori o ricusatori, ma artefici della loro adesione, non solo scoprendo nuove verità ma tenendo viva l’energia feconda che le antiche e alte verità contengono. È forse questo il disagio più grave dei nostri giorni. Noi adulti in modo reiterato e pedante consegniamo le verità e ci accontentiamo di prediche moralistiche, dando l’impressione di avere tra le mani solo rami secchi. E i giovani per parte loro, invece di ricercare, di rinverdire le verità che vengono loro trasmesse, si trascinano in mezzo a una nebbia di banalità, di volgarità, di stupidità, lasciandosi contagiare; basta vedere Benevento dopo la “movida”. Bisogna che entrambe le generazioni ritrovino un fremito e un gusto autentico, nella consapevolezza che la verità è vita, è fecondità, è passione. Ultimamente ho letto il libro “Le avventure di Pinocchio” commentate da Franco Nembrini, e mi viene in mente la frase che il Grillo parlante rivolge allo scapestrato Pinocchio di Collodi: «Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che ti promettono di farti ricco dal mattino alla sera. Per il solito, o sono matti o sono imbroglioni.

La riconoscenza è ben più fragile ed effimera rispetto all’attesa e alla speranza di favori. Questa è una verità sacrosanta: tutti forse hanno scoperto che, se sei ritenuto necessario per un favore o per la carriera, sei sempre da lui lusingato o, comunque, tenuto in considerazione e rispetto. Una volta raggiunto lo scopo, l’altro ti ringrazia e tutto finisce lì. Impariamo, allora, la riconoscenza pura e sincera. Ma anche evitiamo, se è in nostro potere fare un favore, di giocare con le promesse e di far sperare inutilmente a lungo. Ma attenzione però anche a non esagerare nell’esigere gratitudine eterna per un favore concesso.

Nel racconto dei Vangeli, la domenica delle Palme fu un asino al centro della festa! Su di lui Cristo era salito, proprio come usavano fare in tempo di pace i re durante i loro percorsi in città. E a ben vedere, infatti, normalmente è più prezioso l’asino del cavallo, la gallina rispetto al pavone. Spesso crediamo di essere troppo deboli, incapaci di far valere le proprie ragioni e diventiamo tolleranti nei confronti degli altri. Merito e qualità. Ecco due osservazioni da tenere conto nella tornata elettorale a venire, molto amare ma, purtroppo, anche molto veritiere. Entrambe toccano la perversione dei giudizi che la società esercita assai allegramente. Da un lato, c’è appunto il giudizio sul merito delle persone: non bisogna essere particolarmente pessimisti per riconoscere che è l’apparenza a essere premiata e non certo il valore genuino (il cavallo piuttosto che l’asino). Tutto questo poi è favorito dal contesto in cui viviamo: mai come oggi è l’apparire a spuntarla sempre, è la capacità di “persuadere” e di ornamento ad avere la meglio.

D’altro lato, quasi come in un corollario, un altro fenomeno sconcertante è davanti agli occhi di chi scruta in profondità la società: spesso si è pronti a comprendere e a perdonare i vizi di una persona (essi ci fanno, infatti, sentire superiori) ma non si riesce a tollerare la statura morale, il rigore, l’intelligenza di un altro. Siamo inclini a dipingere quell’onestà come ipocrisia, come inganno, come vantaggio personale, e forse inzuppiamo il pane nella tazza dell’ironia, della critica, della mormorazione. Verità amara che ci costringe a un esame di coscienza severo, anche perché «le nostre virtù spesso sono solo vizi mascherati».

La nebbia della chiacchiera è una sorta di mare in cui ci si bagna con piacere ma dal quale si esce più sporchi di prima

Detto questo con fermezza, si devono però subito condannare quei gestori della cosa pubblica che sprecano risorse, se le accaparrano, le gestiscono in modo inetto o allegro, si lasciano corrompere, creando un altro malcostume italiano (anche se non esclusivo). È, dunque, necessario il ritorno a un’etica politica e sociale, ma soprattutto è necessario tornare al candore di un bambino.

Nell’uso comune “l’imperatore” è diventato un “re”, e il re è nudo!”.

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